La riforma Gelmini, i baroni e gli studenti
L’intervento del governo sull’Università ha quasi monopolizzato, per parecchi mesi, il dibattito politico e culturale del nostro paese. Se dessimo credito alle parole della Gelmini, penseremmo a una vera e propria rivoluzione. Come un disco rotto, il ministro dell’istruzione ha ripetuto all’infinito che l’obiettivo del governo era “quello di valorizzare il merito e avvicinare il […]
L’intervento del governo sull’Università ha quasi monopolizzato, per parecchi mesi, il dibattito politico e culturale del nostro paese. Se dessimo credito alle parole della Gelmini, penseremmo a una vera e propria rivoluzione.
Come un disco rotto, il ministro dell’istruzione ha ripetuto all’infinito che l’obiettivo del governo era “quello di valorizzare il merito e avvicinare il mondo della formazione e quello del lavoro”. Nonostante tutta la buona volontà, non siamo proprio riusciti a capire in che modo la Gelmini cambierà, migliorandole, le sorti dell’Università nel nostro paese. I fondi sono stati ridotti in maniera drastica, ma ciò non vuol dire necessariamente che spariranno gli sprechi. La diminuzione dei soldi all’Università è un mero dato quantitativo, che non incide in meglio sulla qualità della formazione. Se tagliare i fondi all’istruzione vuol dire diminuire drasticamente il numero delle borse di studio, come è successo, allora le conseguenze di questa politica non possono che essere considerate nefaste. La Costituzione tutela il diritto allo studio, un diritto che la Gelmini sta seriamente mettendo in discussione. Finirà che soltanto i figli dei ricchi potranno frequentare l’Università, un po’ come accadeva prima della Seconda Guerra Mondiale. E meno male che al governo ci sono coloro che vogliono modernizzare il paese! Figurarsi se ci fossero dei conservatori.
Nelle scorse settimane abbiamo visto politici ultracinquantenni (di cui una trentina passati sopra le poltrone) salire persino su tetti e torri per ascoltare gli studenti. Onorevoli totalmente disancorati dalla realtà, che fanno finta di voler capire ciò che invece non capiscono affatto. Di seguito un clamoroso esempio.
Ad Annozero La Russa rimproverava uno studente, reo di protestare contro il governo per la sua politica dell’istruzione. “Mio figlio non va in piazza”, urlava beffardo il ministro, che aggiungeva, sempre più indemoniato, “vigliacco, vigliacco, vigliacco!”. Ma aveva ragione, La Russa. Suo figlio non va in piazza. Non ne avrebbe motivo. Così come non ne avrebbero motivo i parenti e gli amici di Bondi, di Mastella, di Alemanno e compagnia bella. I loro parenti e amici, si sa, sono molto più intelligenti di quegli studenti ignoranti che scendono in piazza al solo scopo di non fare lezione e divertirsi un po’ per strada. Se c’è un concorso pubblico – quando c’è, perché ormai non è nemmeno scontato – chi volete che lo vinca? I politici trasmettono il gene dell’intelligenza non solo ai parenti, ma anche agli amici e ai compagni di partito! Non lo sapevate?
Ha ragione anche la Gelmini, quando dice che bisogna rafforzare il legame dell’Università col mondo del lavoro. In Italia, ad esempio, stando alle stime, mancherebbero circa 20.000 infermieri. Se non ci fossero gli stranieri a lavorare nei nostri ospedali, la cifra sarebbe notevolmente più alta. Un governo che volesse veramente avvicinare l’Università al mondo del lavoro, alzerebbe il numero chiuso nei corsi di scienze infermieristiche e abbasserebbe quello dei corsi con meno prospettive occupazionali (lingue, lettere, scienze politiche, economia, ecc.). Quello relativo agli infermieri è solo un esempio. Lo stesso discorso vale, infatti, anche per i dentisti. Solo pochissimi eletti possono accedere a questo corso di laurea. Come scriveva Repubblica, qualche settimana fa, questa gente a 19 anni ha il futuro garantito. Non sarebbe più giusto allargare il numero chiuso in modo che un domani ci saranno più concorrenza e tariffe più basse? Sì, sarebbe decisamente più equo: quindi non si farà.
Che dire sulle cosiddette norme “anti-parentopoli”? Dovrebbero impedire che l’Università continui ad essere una sorta di azienda a conduzione familiare. Basta con le facoltà in cui i baroni fanno assumere moglie, figli, nipoti, generi e nuore! – ha tuonato più volte la Gelmini. I baroni non ancora sposati, oppure quelli con l’amante, non possono che gioire. Ci sarebbe da ridere, se la situazione non fosse drammatica. Ed è drammatica perché si fa finta di capire che i problemi del reclutamento possano essere risolti con certe norme: demagogiche, populistiche e facilmente raggirabili. Non servono a nulla! Servono, invece, metodi di selezione razionali e tre cose appena: trasparenza, trasparenza, trasparenza. Il resto è pura retorica. Il resto è la volontà di far sì che tutto (o quasi) resti immutato.
Già, quasi. Si è già detto della diminuzione dei fondi per le borse degli studenti più meritevoli, ma con scarsi mezzi economici. La prossima novità potrebbe riguardare coloro i quali – tagli permettendo – vorranno accedere all’insegnamento. L’intenzione della Lega Nord è chiara. Il partito di Bossi vorrebbe che le graduatorie dei docenti fossero stilate su base regionale. Lo scopo, ci spiegano gli uomini in verde, è quello di “garantire la continuità didattica”. Una bugia colossale. Si può essere inseriti in una graduatoria regionale e cambiare 20 istituti in un anno scolastico, teoricamente. La continuità didattica la si assicura mettendo fine – coi concorsi – alla sempre più diffusa precarietà dei docenti. Il vero scopo della Lega, insomma, è quello di fare fuori i laureati del Meridione che vogliono accedere all’insegnamento e che sono disposti al trasferimento, in modo da favorire quelli del Nord. Se, infatti, nel Settentrione c’è ancora una discreta disponibilità di posti, giù ci sono graduatorie chilometriche. Una domanda per la Gelmini: ma deve contare il merito, che lei tanto cita, oppure i criteri territoriali? L’impressione è che, come accade ogni volta, quella che sembra una pura provocazione leghista, poi diventerà legge. Certo è che, nel 150° anno dell’Unità d’Italia, le graduatorie regionali per i docenti sarebbero il più razzista, anticostituzionale e insopportabile dei paradossi. Tanto più visto che la scuola, diffondendo la lingua e la cultura nazionali, è stata uno dei pochi fattori che ha realmente contribuito a unificare il paese.