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Film da vedere 2010, Rabbit Hole

Film da vedere 2010 – Recensioni Rabbit Hole Se Montale incontrava il male di vivere nell’accartocciarsi della foglia riarsa, John Cameron Mitchell lo incontra in Rabbit Hole. Al pubblico non rimane altro che la “divina Indifferenza”. Il giovane regista statunitense, giunto alla sua terza prova dietro la macchina da presa, da sempre ha avuto modo […]

Film da vedere 2010 – Recensioni

Rabbit Hole

Se Montale incontrava il male di vivere nell’accartocciarsi della foglia riarsa, John Cameron Mitchell lo incontra in Rabbit Hole. Al pubblico non rimane altro che la “divina Indifferenza”.

Il giovane regista statunitense, giunto alla sua terza prova dietro la macchina da presa, da sempre ha avuto modo di far parlare di sé con film “eccentrici” ascritti al filone New Queer Cinema.

Se con la sua opera rock su un musicista transgender della Germania dell’Est, Hedwig- La diva con qualcosa in più (2001) riuscì ad aggiudicarsi alcuni premi (tra cui miglior film e premio del pubblico al Sundance Film Festival), lo stesso non accadde per la sua seconda proposta, Short bus- Dove tutto è permesso(2006), lungometraggio senza attori professionisti ma con molte scene di sesso esplicito presentato al Festival di Cannes dello stesso anno.

Il colpo grosso sarebbe dovuto arrivare nel 2010 con Rabbit Hole: film drammatico dalla relativa lacrima facile, coadiuvato da attrice protagonista (Nicole Kidman) e non protagonista (Dianne Wiest) entrambe premio Oscar e dalla controparte maschile Aaron E. Eckhart.

E in parte è arrivato, visto che gli Academy gli hanno affibbiato cinque nomination agli Oscar.

Lo stesso non si può dire per parte della critica e del pubblico che, all’uscita della sala, ha chiesto indietro i soldi del biglietto.

Girato principalmente a New York nei quartieri di Douglaston e Queens; prodotto dalla Blossom Films (casa di produzione diretta dalla stessa Kidman, che ha messo a disposizione un budget di 10 milioni di dollari per 28 giorni di riprese) la pellicola intende portare sullo schermo la quotidianità di una coppia distrutta dalla perdita del figlio.

E stop. Non c’è altro.

E neanche ci sarebbe bisogno di altro per un film per cui sarebbero necessari solo interni, una fotografia degna di tale nome e una sceneggiatura brillante. Elementi che vengono a mancare nonostante il budget messo a disposizione, di gran lunga superiore a molte altre produzioni, e un pull di attori non indifferente.

Troppo spazio è lasciato anche agli attori stessi che risentono di una conduzione tutto fuorché rigida e del peso di una Kidman al botulino, lontana da interpretazioni che l’hanno consacrata a stella come Eyes wide shut, The hours e Dogville, nevrastenica e schiava di movenze inutilmente accentuate.

Una storia pensata per il palcoscenico che rimane arginata a quell’ambiente, nonostante vengano usate le esterne come stimolo per andare avanti e imparare a convivere con il dolore.

Nonostante la trama, il film “riesce” nel finale, evitando di scivolare in facili soluzioni quali un flirt o il concepimento di un nuovo figlio, risolvendo la questione con un semplice, quanto mai veritiero, «qualcosa faremo».

Da guardare (se proprio si deve) comodamente a casa, con una bella tazza di caffè a fianco.

Francesco Vassallo

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