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Il venditore di medicine, le nostra recensione

Il venditore di medicine con Claudio Santamaria e Isabella Ferrari, ecco la nostra recensione

Il venditore di medicine, la nostra recensione-Se fossimo noi i topolini dell’esperimento di Laborit, parafrasato nel film, quale via di uscita sceglieremmo? L’impossibilità di rispondere allo stress, la doppia impossibilità, è una vecchia teoria che spiega uno dei meccanismi fondamentali per cui ci si ammala; ed è questo il cardine di tutto il film attorno a cui si muovono tutti i personaggi: soccombere o impazzire cercando di non soccombere?

Il venditore di medicine al cinema

TRAMA. Bruno (Claudio Santamaria), il protagonista, è un informatore farmaceutico che da anni coltiva la sua cerchia di medici di zona con regalie di ogni genere, ricevendone in cambio cospicue prescrizioni dei farmaci prodotti dalla sua industria farmaceutica. Questa pratica, nota come comparaggio, che consiste nell’accettare del medico regalie di qualsiasi tipo in cambio della prescrizione di uno specifico farmaco, viene attuata pervicacemente e capillarmente da tutta l’azienda , e Bruno, ultimo anello della catena, si trova nell’impossibilità morale di reagire ai tagli indiscriminati del personale che stanno affliggendo la sua azienda all’ombra della crisi economica. Il suo capo-area (Isabella Ferrari) spinge i suoi sottoposti quasi fino alla tortura psicologica ad aumentare la percentuale di prescrizioni, vedendo a rischio anche il suo ruolo. In questo vagare schizofrenico da un medico all’altro si dispiegano le piccole storie degli altri personaggi. I tre medici, Filippo (Giorgio Gobbi), dott. Buontempone (Ippolito Chiarello) e il dott. Sebba (Ignazio Oliva) riassumono più o meno la gamma di risposte al comparaggio: il primo, il classico bonario medico di famiglia di un tempo, lo accetta come status quo e cerca di trarne qualche piccolo vantaggio; il secondo, opportunista e cinico, lo usa per trarne vantaggi materiali; il terzo, integerrimo, lo rifiuta e ne denuncia l’esistenza. Ma Bruno è solo? No. Al ritorno nella sua bella casa con piscina in un residence di lusso con cancello e guardia giurata lo aspetta una adorabile moglie, Anna (Evita Ciri), insegnante di latino e greco in un liceo classico, concreta, umana, quasi scialba nella sua normalità. Così Bruno si cala nella sua vita parallela, fatta di cene tra amici, domeniche in casa, sesso coniugale, pranzi coi suoceri, nessuna impossibilità e quindi niente stress, fin quando la moglie non decide che è il momento di rimanere incinta, riportando Bruno nella situazione di inanizione che pervade la sua vita lavorativa e costringendolo a scelte estreme che si riveleranno drammatiche. Parentesi nella narrazione sono il Prof. Malinverni (Marco Travaglio) e il politico Alberto Petri (Vincenzo Tanassi), icone di un’italianità ipocrita e corrotta. Il medico interpretato da Travaglio si finge integerrimo come il suo attore pur avendo l’armadio pieno di scheletri: il grimaldello che permette di scardinarlo sembra la soluzione di una delle due impossibilità, Bruno riesce a rifiatare, ma poi tutto precipita.

il venditore di medicine 2

RECENSIONE. Scritto dal regista Antonio Morabito a sei mani con Michele Pellegrini e Amedeo Pagani, il film è incentrato sul comparaggio e sulla doppia impossibilità che lascia il personaggio senza via di uscita, in preda al disorientamento morale. In realtà il film è stato girato per essere letto prevalentemente come denuncia sociale alla mercificazione della nobile arte medica, che tratta il paziente come un normale acquirente di prodotti più o meno utili che non servono a guarire ma a curare sintomi di effetti collaterali di altri farmaci. Questa visione prevale sulla storia del protagonista, non si scava nella discesa nell’abisso di Bruno, come se l’urgenza e l’attualità della denuncia non lasciassero spazio alla fiction del rapporto con la moglie, l’incontro con il vecchio amico distrutto nel corpo per essersi sottoposto alla sperimentazione di farmaci, la crisi economica, il rapporto con il tessuto sociale e umano che lo circonda. Tutto ciò che non rientra nell’idea principale del regista non viene sottolineato con la stessa tensione emotiva, quasi di sfinimento nervoso, che invece pervade le scene in cui il protagonista conduce il suo mercimonio.
Si capisce che in questo momento storico è più facile fare breccia sul grande pubblico scoperchiando calderoni che scavando nella psicologia di un personaggio. Alla fine le due vite si scontrano in un effetto valanga poco credibile, in cui sembra che la storia debba finire ma non si capisce come ci si è arrivati. Bruno non “cresce” nel film, non migliora e non peggiora, la sua abiezione rimane il sottofondo di una trama che di per se è inconsistente. Santamaria passa dall’atonia apatica al cospetto del suicidio del collega alla nevrosi quotidiana che sfocia in una schizofrenica rincorsa della quiete, la fine di tutte le tensioni. In alcune situazioni risulta eccessivo, in altre riesce a restituire alla perfezione il sentimento del momento, come nel primo piano interminabile che lo porta fino alla stanza del prof. Malinverni. La Ferrari ha un ruolo marginale nella storia, è un’altra vittima, e le sue sfuriate piene di paura lo lasciano trasparire. Forse un po’ troppo ostentata la recitazione nella prima scena, molto sales manager made in USA ma poco reale. Perfetto il cammeo di Marco Travaglio: il primario è stronzo (parole sue) quanto lui, distaccato, odioso nella sua integrità e soprattutto come i suoi detrattori vorrebbero che fosse: integerrimo fuori e marcio dentro. La moglie Evita Ciri è un personaggio semplice e un po’ banale: stereotipo di preoccupazioni femminili, non si accorge della valanga che sta per travolgere la sua vita e quella del marito, resta superficiale nella sua tranquilla vita di facciata, anosmica nel mare putrido in cui galleggia. Nel finale si perde un po tutto, la storia precipita troppo in fretta, sembra tutto un po’ raffazzonato, anche il montaggio, si è esaurita la fase di denuncia e si vuole tornare a casa al più presto.

Il primo lungometraggio di questo regista non tradisce in effetti la sua vocazione di regista di documentari. La denuncia sociale del comparaggio è centrata e calzante, giusta perché il fenomeno è trascurato dai media che traggono dal gigante farmaceutico una fetta importante di introiti pubblicitari, sottovalutato o peggio insabbiato dalla politica per le pressioni lobbistiche; ma resta ben poco della storia. Sarebbe stato un ottimo documentario.

Recensione a cura di Francesco Celso



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