ShowBiz

Film da vedere, La 25 ora

Un uomo e una città. L’uomo è Monty Brogan, uno spacciatore incastrato da una soffiata che ha davanti a sé l’ultima giornata di libertà prima di essere rinchiuso per sette anni in una prigione. La città è New York con i suoi quartieri, con i suoi territori, con le sue strade codificate dalla topografia simbolica […]

Un uomo e una città. L’uomo è Monty Brogan, uno spacciatore incastrato da una soffiata che ha davanti a sé l’ultima giornata di libertà prima di essere rinchiuso per sette anni in una prigione. La città è New York con i suoi quartieri, con i suoi territori, con le sue strade codificate dalla topografia simbolica del cinema, con le sue facce, i suoi colori, le sue etnie, con quel condensato teorico, culturale e sociologico che esemplifica l’idea del melting pot.
Monty aspetta la venticinquesima ora, quella non segnata dagli orologi, quella che né ferisce né uccide, quella dove si potrebbe inventare un altro destino. Lontano dal carcere, con una identità nuova, con una famiglia così perfetta da essere falsa anche in una fantasia da futuro carcerato. New York aspetta che scada quella 25ª ora in cui l’incubo dell’11 settembre, la morte e la distruzione, l’hanno colpita con una violenza non immaginabile. Una metropoli attonita e stordita,che non sarà mai più uguale a se stessa, con le macerie su cui sventola,nella notte,una bandiera a stelle e strisce. Detriti, mattoni, polvere, mozziconi di muri e di soffitti che lentamente vengono rimossi, spazzati, ricomposti da una squadra di operai. Al posto delle Twin Towers un buco, un’occhiaia svuotata, una voragine sulla pelle, sulla carne e dentro i nervi della città . Quell’ora tragica non è ancora scaduta e non potrà essere dimenticata e in qualche modo ha avvelenato l’aria, l’ha resa malsana. Monty e New York sono i protagonisti asimmetrici e paralleli di questo film straordinario (il migliore nella filmografia di Spike Lee). Un film sul Tempo e non tanto perché lavora sull’unità di una giornata, su quelle ventiquattro ore nel corso delle quali Monty (un eccellente Edward Norton) mette insieme i pezzi smembrati e trascurati della sua vita di feroce, losco ed elegante dispensatore di disperazione e di morte che ha camminato per strada con il passo e l’indifferenza sottile di chi non si è mai fatto tante domande e non ha mai tentato di dare risposte ai suoi rari perché.

Nella sua casa dall’affitto molto alto, seduto sul divano dietro cui campeggia il manifesto di Nick mano fredda, nella vasca da bagno mentre amoreggia con la sua bellissima Naturelle (Rosario Dawson), una portoricana che potrebbe averlo tradito, nelle passeggiate con il cane si avverte il lento e avvilito addio alla città, alla sua agiata e immorale vita da delinquente. I ricordi affiorano qua e là con flashback che scorrono come correnti nascoste dentro questo placido, in alcuni momenti dilatato, iterativo, conto alla rovescia. Spike Lee comprime e dilata il tempo, lo ”taglia“ (come se fosse una dose da spacciare in modica quantità) e lo rallenta. Nella lezione di letteratura di Jacob Elinsky (un compresso e represso Philip Seymour Hoffman), nella nevrosi da ufficio e nell’attesa dei dati sulla disoccupazione del broker-kamikaze Francis Xavier Slaugherty (un bravissimo Barry Pepper), nel congedo al gangster russo, nella lunghissima e memorabile sequenza nel locale notturno (dove Monty la sua fidanzata e i suoi due migliori amici, Jacob e Francis festeggiano l’ultima notte quasi di quiete) e in altri interstizi, in altre cavità narrative e in altre giunture del racconto, la persistenza dello sguardo del regista lascia ai personaggi e agli attori (tutti eccellenti) il loro tempo, soggettivo e oggettivo. Non sono stasi o tempi morti poiché il film ha un montaggio molto articolato (che avviluppa lo spettatore) e un numero contenuto di scene. Il tempo si fa spazio, architettura, topografia, mappa metropolitana in due sequenze da antologia che corrodono, violano e mordono l’anima dei personaggi e di chi guarda il film. Nella prima, Monty, davanti allo specchio di un bagno, declama con rabbia e impotenza un’invettiva-rap contro i popoli, le storie, i sapori, gli odori, i gesti dell’amata-odiata New York. Un ”fuck you“ che sembra una preghiera blasfema, il precipitato chimico dei pregiudizi del mondo e dei newyorkesi messi in ordine come tante tessere di un mosaico multiforme. Nella seconda, Jacob e Francis chiacchierano davanti a una finestra e la macchina da presa inquadra dall’alto i loro corpi e le loro parole e mostra quello che non resta del giorno maledetto e quello che non resta del World Trade Center. Basterebbero questi meravigliosi minuti di cinema a fare della 25ª ora un capolavoro.

Francesco Vassallo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.